Dipinti dell'ottocento
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Alcune caratteristiche storiche e cenni storici
“La pittura piemontese del XIX secolo: Fontanesi, Avondo e Delleani”
Tra i grandi nomi della pittura piemontese del XIX secolo, tre emergono come rappresentativi del gusto e dello stile della regione subalpina: Antonio Fontanesi, Vittorio Avondo e Lorenzo Delleani. La loro influenza sulla pittura dell’epoca è stata significativa e il loro contributo all’arte continua ad essere riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo. In questo testo, esamineremo la vita e l’opera di questi artisti, e cercheremo di comprendere come abbiano contribuito alla creazione di una scuola di pittura piemontese di grande rilievo.
Antonio Fontanesi, nato a Reggio Emilia nel 1818 e morto a Torino nel 1882, è stato uno dei più importanti pittori della sua epoca. Durante l’insegnamento all’Accademia Albertina di Torino, ha esercitato una forte influenza sui pittori torinesi, nonostante la sua origine emiliana.
Antonio Fontanesi è noto soprattutto per le sue opere che rappresentano paesaggi, natura morta e figure, e per il suo uso innovativo del colore e della luce. La sua tecnica pittorica è stata influenzata dall’impressionismo francese, e la sua opera è stata molto apprezzata dai collezionisti e dagli artisti del tempo.
Vittorio Avondo, nato a Torino nel 1836 e morto nel 1910, è stato un altro importante pittore piemontese del XIX secolo. La sua opera è stata influenzata soprattutto dal realismo e dal naturalismo, ed è caratterizzata da un denso cromatismo e da una grande attenzione ai dettagli.
Avondo è stato un grande innovatore nella pittura paesaggistica, e la sua influenza si è fatta sentire su molti altri artisti della sua epoca, tra cui, Vittorio Cavalleri e Marco Calderini.
Infine, Lorenzo Delleani, nato a Pollone – Biella nel 1840 e morto a Torino nel 1908, è stato un altro importante pittore piemontese del XIX secolo. La sua opera è stata caratterizzata da un contrapposto cromatico al chiaro-scuro quasi monocromatico di Fontanesi, con una pennellata rapida e vivace. Delleani è stato un grande innovatore nel genere del paesaggio, e la sua influenza si è fatta sentire su molti altri artisti della sua epoca.
Attraverso questi tre artisti, possiamo ripercorrere la storia della pittura piemontese del XIX secolo, che ha lasciato un patrimonio artistico di alta qualità, solo recentemente rivalutato.
Torino, infatti, è stata uno dei maggiori e più vivaci centri artistici italiani tra il 1880 e il 1902, con le Quadriennali e le Triennali.
Per comprendere questo periodo, dobbiamo immergerci nell’atmosfera del XIX secolo e analizzare le premesse che hanno portato al rinnovamento della concezione pittorica, soprattutto nel genere del paesaggio.
In sintesi Insieme, Antonio Fontanesi, Vittorio Avondo e Lorenzo Delleani rappresentano il meglio della pittura piemontese del XIX secolo. La loro arte, caratterizzata da un forte senso del realismo e della bellezza, è stata fondamentale per la definizione dell’identità artistica della regione subalpina. Le loro opere continuano a essere ammirate e studiate oggi come esempi di grande maestria e sensibilità artistica.
La scuola di Rivara
La scuola di Rivara non fu una scuola in senso tradizionale, ma un cenacolo artistico. Durante i soggiorni presso Rivara, questo cenacolo, riunitosi fin dal 1861 intorno a Carlo Pittara (1836-1891) e Alfredo D’Andrade (1839-1915), ebbe l’intento di studiare amorevolmente la campagna del Canavese con una sincera e schietta ispirazione alla realtà. Il loro atteggiamento anti-accademico fu di rottura con il paesismo di matrice romantica. Fondamentale fu per loro il confronto con la scuola paesaggistica piemontese e in particolare con Antonio Fontanesi, il quale nel 1869 ricoprì la cattedra di pittura di Paesaggio all’Accademia Albertina di Torino. L’influsso di Fontanesi portò a esiti diversi: Carlo Pittara mostrò un saldo realismo mentre Vittorio Avondo (1836-1910) produsse delicate impressioni tratte dalla natura. Intorno a Carlo Pittara la scuola ogni estate aveva modo di riunirsi e di dipingere en plein air. Questo gruppo vide includere inoltre il piemontese Ernesto Bertea (1836-1904), Federico Pastoris di Casalrosso (1837-1884) e i rappresentanti della cosiddetta Scuola Grigia Ligure: Ernesto Rayper, Alberto Issel e lo spagnolo Serafino De Avendaño. Il gruppo si sciolse prematuramente con la morte di Ernesto Rayper nel 1873 e il trasferimento di Pittara a Roma nel 1877. Nonostante ciò la scuola paesaggistica piemontese non si interruppe e continuò su questi esempi a produrre opere dedicate a rappresentare il senso elegiaco della natura quanto il suo dato autenticamente reale. In questo senso si mossero pittori successivi come Lorenzo Delleani o Enrico Reycend. Altri seguaci, viceversa, ricalcarono le orme di una pittura più convenzionale.
Con Scuola Grigia (o Scuola dei Grigi) si intende un cenacolo artistico ligure intenzionato a rinnovare l’approccio alla pittura di paesaggio. La scuola, attiva dal 1860 al 1880, ebbe tra i suoi membri artisti che frequentarono l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Il loro nome deriva dall’avversione al nero e dalla predilezione per le mezze tinte chiare e delicate. Il loro approccio alla natura fu diretto e particolarmente attento alla diffusione della luce nel paesaggio, riproposta con tinte argentee chiare e sommesse. I loro soggetti preferiti rappresentano la campagna, le colline e i paesaggi in riva al mare. Accanto alla pittura a olio praticarono la tecnica del fusain.
Questi giovani trovarono un modo comune di intendere il paesaggio ispirandosi ai paesisti francesi degli anni trenta dell’Ottocento. Capostipite della Scuola grigia fu Ernesto Rayper (1840-1873), mentre tra i principali animatori teorici vi fu Tammar Luxoro (1825-1899), maestro e mentore di Rayper. Negli annuali raduni estivi a Carcare confluivano anche, a partire dal 1863, Alfredo D’Andrade, insieme a Serafino De Avendaño (1838-1916), Alberto Issel (1848-1926), Santo Bertelli, Domenico Casella, Gabriele Castagnola, Francesco Gandolfi, Benedetto Musso, Carlo Prayer, Francesco Semino, Antonio Varni, Giovanni Battista Villa, Umberto Villa. I principali esponenti della Scuola grigia confluirono nella Scuola di Rivara.
Il Chiarismo lombardo è un movimento artistico nato a Milano all’inizio degli anni Trenta del Novecento. Il termine fu coniato dal critico Leonardo Borgese nel 1935 (ma fu Guido Piovene a codificarlo nel ’39), in riferimento ad alcuni giovani pittori lombardi che lavoravano a una pittura senza chiaroscuro, cromaticamente chiara e intrisa di luce. Al predominio dei valori volumetrici, su cui si era fondato il Novecento Italiano, si sostituiva nel Chiarismo il predominio del colore. Fu il primo movimento antinovecentista, sebbene non sia corretto porre il problema sul piano di una semplice contrapposizione cromatica, poiché la vera ragione dell’uso del colore chiaro insiste su una funzione anti-volumetrica. Per cui da una pittura impostata sul disegno e il chiaroscuro si passa con i Chiaristi a una pittura incentrata sul colore e sul tono senza profondità prospettica. Non si trattò tuttavia di un problema solamente formale, ma della proposta di una pittura moderna e aperta all’impressionismo, al post-impressionismo e alla Scuola di Parigi, capace di sostituire la concezione classicista degli Anni Venti con un’idea neo-romantica. La loro pittura si rifece infatti al Piccio e alla Scapigliatura. Il Chiarismo non costituì un vero e proprio gruppo, ma un clima espressivo coagulatosi intorno al critico Edoardo Persico. Il periodo più fulgido fu tra il 1932 e il 1934, estendendosi poi lungo tutto il decennio e oltre e trovando, dopo la morte di Persico nel 1936, il proprio punto di aggregazione intorno alla Galleria Annunciata a Milano. I protagonisti del movimento milanese furono Angelo Del Bon (1898-1952), Francesco De Rocchi (1902-1978), Umberto Lilloni (1898-1980), Adriano Spilimbergo (1908-1975) e Cristoforo De Amicis (1902-1987) ai quali vanno accostati quelli del gruppo alto-mantovano: da Giuseppe Facciotto (1904-1945) a Oreste Marini (1909-1992).
Il decennio compreso tra il 1860 e il 1870 fu il più prolifico per la pittura di macchia. Gli artisti lavoravano in piccoli gruppi in Toscana, spontaneamente formatisi per affinità di ricerca artistica. I Macchiaioli reagirono all’ inerzia accademica tenendosi contemporaneamente in rapporto con i fermenti ideologici risorgimentali. Gli artisti di questo movimento furono soliti riunirsi a discutere presso il Caffè Michelangiolo di Firenze. Silvestro Lega (1826-1895), Telemaco Signorini (1835-1901), Odoardo Borrani (1833-1905) si riunivano inoltre a Piagentina, nei pressi di Firenze, mentre Giuseppe Abbati (1836-1868), Raffaello Sernesi (1838-1866) e Giovanni Fattori (1825-1908) nella tenuta appartenente a Diego Martelli a Castiglioncello. In quest’ultima località nacquero le opere cromaticamente più intense di Fattori, mentre a Piagentina Signorini e Lega sperimentarono un paesaggismo a metà tra città e campagna. Lega e Borrani si dedicarono con maggiore cura alla pittura di interni, invasi da luci tanto terse da rammentare la lucidità ottica della pittura toscana del Quattrocento. Gli altri membri del gruppo furono. Cristiano Banti, Stefano Bruzzi, Ferdinando Buonamici, Vincenzo Cabianca, Niccolò Cannicci, Giovanni Costa, Vito D’Ancona, Serafino De Tivoli.
I Macchiaioli si resero protagonisti del rinnovamento dei soggetti storici e di paesaggio, e su quest’ultimo genere gli amici si trovarono spesso vicini a dipingere i medesimi soggetti tratti da angolature poco variate. Per macchia si intende un’accentuazione del chiaroscuro pittorico. A differenza degli impressionisti, i Macchiaoli non disfecero il paesaggio nella luce, nell’effetto luminoso fuggevole, ma aumentarono la solidità e la concretezza dei soggetti con contrasti più crudi, atti ad elidere i passaggi cromatici intermedi. Macchie di colore, quindi, distinte e accostate ad altre macchie di colore. Teorici e critici dei Macchiaioli furono Diego Martelli ed Adriano Cecioni (1836-1886), ma il gruppo non raggiunse mai una teorizzazione coerente. Le declinazioni personali degli artisti furono, infatti, molto diverse l’una dall’altra. L’esperienza dei pittori macchiaioli costituì uno dei momenti più significativi nel rinnovamento linguistico figurativo italiano alla metà dell’Ottocento. Questa coraggiosa sperimentazione porterà a un’arte nazionale “moderna”, che ebbe a Torino, nel maggio del 1861, la sua prima affermazione alla Promotrice delle Belle Arti.
L’incontro tra Antonietta Raphaël, Mario Mafai, Scipione (Gino Bonichi) e Marino Mazzacurati, diede vita alla cosiddetta Scuola Romana o Scuola di via Cavour. Questa non ebbe mai una vera struttura organizzata sebbene avesse tentato di darsi una base teorica quando nel 1931 uscirono i soli due numeri della rivista “Fronte”. La Scuola Romana, attiva a Roma tra il 1928 e il 1945, comprendeva un gruppo eterogeneo di artisti di attitudine espressionista e di marca europea, in contrapposizione formale ai richiami classici del cosiddetto Ritorno all’ordine, di Novecento e di Valori plastici.
Antonietta Raphaël (1895-1975), pittrice e scultrice di origine lituana, era giunta a Roma nel 1924 portando con sé l’esperienza della pittura intensamente espressiva degli emigrati a Parigi dall’Est Europa. Si legò a Mario Mafai (1902-1965) il quale fu un artista capace di trasferire sulla tela, con immediatezza e calde luminosità, le immagini di una Roma diroccata. Con una pittura cromaticamente intensa Mafai propone una città di struggente intimismo, nella quale denunciò le demolizioni in atto dettate dalla volontà celebrativa del regime. Nel 1927, i due artisti si trasferirono in un appartamento adibito a casa e studio in via Cavour, dalla terrazza del quale dipinsero e ospitarono personalità eminenti della cultura dell’epoca tra i quali: Enrico Falqui, Giuseppe Ungaretti, Libero de Libero, Leonardo Sinisgalli, Scipione, Renato Marino Mazzacurati (1907-1969), Corrado Cagli. Dalla loro esperienza artistica Scipione (1904-1933) partì intensificando la forza espressionista delle sue tele, caratterizzate da una tavolozza calda nelle tonalità dei bruni e dei rossi. Quella dipinta da Scipione è una città decadente e sontuosa, erede della Roma del Cinquecento e del Seicento ma nella quale si muovono figure di una società in pieno disfacimento tra corruzione e lussuria. Scorci decadenti del centro storico, prelati e cardinali osservati come oscuri principi detentori di un potere inquietante saranno i soggetti d’elezione di Scipione, che darà vita in questo modo a un espressionismo barocco romano.
La scuola romana non si esaurì con i primi protagonisti, ma si estese in una eterogenea seconda stagione sviluppatasi dagli anni Trenta fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Tra i principali artisti di questo secondo periodo si ricordano: Roberto Melli, Guglielmo Janni, Donatella Pinto, Fausto Pirandello e Ferruccio Ferrazzi.
l pittore Antonio Van Pitloo (1791-1837), vincitore nel 1816 della cattedra di paesaggio presso l’Istituto di Belle Arti di Napoli, ebbe il merito di indurre i pittori meridionali a liberarsi dai dettami della pittura convenzionale di paesaggio indirizzandoli viceversa alla pratica dal vero. Coloro che si riunirono attorno a lui vennero a formare la cosiddetta Scuola di Posillipo. Il più celebre rappresentante della scuola fu Giacinto Gigante (1806 – 1876) che sviluppò una pittura, emancipata da quella del maestro, luminosa e cromaticamente sontuosa. Produsse un grande numero di acquerelli dove con senso acuto del paesaggio ritrasse panorami marini e terrestri di Campania e Sicilia. Tanto più il suo tono diviene evocativo tanto più la sua qualità eccelle e quasi rivaleggia con il luminismo dei maestri secentisti napoletani. Una tale immediatezza stilistica lo portò quindi a fare una pittura di “macchia”.
In rapporto a questa scuola pittorica fu anche Filippo Palizzi (1818-1899) che svolse invece la sua pittura nella direzione di un verismo descrittivo. I motivi sono quelli di animali e scene domestiche colte con un verismo che affonda le proprie radici nella pittura fiamminga trapiantata fin dal Quattrocento nell’ambiente partenopeo. Al contrario, letteraria fu la pittura di Domenico Morelli (1826-1901) che frequentò soggetti maggiormente poetici e si impegnò in composizioni a carattere storico e religioso capaci di miscelare influenze romantiche francesi con echi tiepoleschi e del Seicento napoletano. I maggiori risultati li raggiunse, tuttavia, nei ritratti e nelle figure femminili, dove riuscì a liberarsi della sfera letteraria. Letterarietà dalla quale, una volta emancipatisi, gli artisti raggiungevano accenti o folcloristici, che furono propri dello scolaro Francesco Paolo Michetti (1851-1929), oppure sociali come in Teofilo Patini (1840-1906). Mentre Mariano Fortuny (1838-1874) intraprese una strada pittorica affine a quella del Morelli, ossia verso uno sgargiante virtuosismo, Michele Cammarano (1835-1920) allievo di Palizzi raggiunse vividi e intensi effetti luministici. A Raggiungere Giuseppe Palizzi stabilitosi in Francia fu Giuseppe De Nittis (1846-1884), artista che nella capitale francese condusse una pittura tesa a rappresentare il bel mondo femminile e le vedute cittadine in modo assai più mondano rispetto a un Gioacchino Toma (1836-1891), viceversa amante di una pittura intima e malinconica. Toma adottò composizioni caste adatte a fare da sfondo a soggetti lirici trattati con toni pacati. Antonio Mancini (1852-1930) ebbe come maestro Domenico Morelli e fu amico di Vincenzo Gemito. Divenne cantore della vita nelle strade tra scugnizzi, saltimbanchi, chierichetti e giovani donne. Ispirandosi alla tradizione luministica seicentesca, seppe condurre una pittura tesa a riscattare queste figure con uno stile saldo in ordine chiaroscurale e plastico e, nella seconda parte della sua carriera, con una ricchezza cromatica estremamente originale e personale.